Acidificazione degli oceani: di cosa si tratta, come avviene e conseguenze

acidificazione oceani

Acidificazione degli oceani: di cosa si tratta, come avviene e quali sono le conseguenze” è il primo articolo frutto della collaborazione tra la Sezione Valorizzazione della Ricerca e Public Engagement – Agorà Scienza – e dal Green Office UniToGO dell’Università di Torino con la IdeeGreen S.r.l. Società Benefit.

L’articolo riprende i testi del Prof. Marco Minella per la parte dedicata all’acidificazione degli oceani e i contributi del dott. Tommaso Orusa, della dott.ssa Mariasole Bianco e della dott.ssa Arianna Liconti nella parte dedicata al fenomeno dello sbiancamento delle barriere coralline.

I testi sono pubblicati nell’opera “Lessico e Nuvole: le parole del cambiamento climatico”, la seconda edizione della guida linguistica e scientifica per orientarsi nelle più urgenti questioni relative al riscaldamento globale, curata dalla Sezione e dal Green Office.



La versione gratuita di Lessico e Nuvole, sotto forma di file in formato .pdf, è scaricabile dalla piattaforma zenodo.org.

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Tutto il ricavato delle versioni a pagamento sarà utilizzato dall’Università di Torino per finanziare progetti di ricerca e di public engagement sui temi dei cambiamenti climatici e della sostenibilità.

Che cosa è l’acidificazione degli oceani

L’acidificazione degli oceani è il processo, ora in atto, di aumento dell’acidità delle acque oceaniche a causa di una maggiore dissoluzione / presenza di diossido di carbonio (CO2). Quest’ultimo è un gas relativamente solubile in acqua per cui il suo aumento in atmosfera ha portato a un aumento della velocità di dissoluzione nelle acque di mari e oceani.

Come avviene l’acidificazione degli oceani

L’acidità di un’acqua (la concentrazione di ioni H3O+ disciolti in essa) è comunemente misurata attraverso il parametro noto come pH, il quale è calcolato come il logaritmo in base 10 negativo della contrazione dello ione H3O+. In generale le acque oceaniche hanno pH debolmente basici (pH > 7), ma il processo di acidificazione di queste acque comporta un aumento della concentrazione di ioni H3O+ e conseguentemente una decrescita dei valori di pH.

Il diossido di carbonio una volta disciolto in acqua genera acido carbonico che, dissociandosi, genera ioni idrogenocarbonato (bicarbonato) e carbonato rilasciando ioni H3O+ secondo le reazioni qui sotto riportate.

reazioni acidificazione oceani

L’acidificazione degli oceani nel corso degli anni

Si stima che a partire dall’inizio della rivoluzione industriale circa il 30-40% del diossido di carbonio rilasciato dalle attività antropiche in atmosfera si sia disciolto nelle acque dolci e salate della Terra portando approssimativamente a una diminuzione media del pH di 0.1 unità. I carbonati formatisi tendono a sedimentare sul fondo degli oceani poiché poco solubili formando un pool di riserva di carbonio poco reattivo: tale meccanismo rappresenta quindi un processo essenziale di rimozione del CO2 atmosferico e ha permesso, in parte, di diminuire la velocità di crescita di questo gas in atmosfera.

La decrescita del pH delle acque oceaniche ha inoltre come conseguenza una minore concentrazione di ioni carbonato. L’acidificazione delle acque oceaniche insieme alla crescita della loro temperatura media rappresentano dei rischi molto importanti per gli ecosistemi marini/oceanici e sono infatti tra i fattori di pericolo più preoccupanti per il “sistema Terra”.

La diminuzione della concentrazione di carbonato in soluzione, conseguenza della decrescita del pH, porta a una minore saturazione dei costituenti minerali (calcite e aragonite, differenti forme cristalline di carbonato di calcio) dei gusci calcarei di molluschi e plancton calcareo deprimendo la vitalità di queste specie fino a provocarne la morte, privando di conseguenza il mare di elementi fondamentali per il suo benessere.

Sbiancamento a causa del deperimento della barriera corallina

Le barriere coralline sono spesso citate come uno dei sistemi ecologici più importanti, seppure anche tra i più sensibili al riscaldamento globale. Negli ultimi anni la frequenza e la virulenza di fenomeni di sbiancamento dei coralli (in inglese “coral reef bleaching”), è aumentata, principalmente a causa di fenomeni legati al cambiamento climatico come esposizioni prolungate ad alte temperature del mare.

A causa dell’incremento di gas ad effetto serra nell’atmosfera, la temperatura dell’Oceano sta aumentando di circa 0.13 °C ogni decade, causando inoltre numerosi eventi di anomalie termiche chiamate ondate di calore (“heatwaves”), e definite come lunghi periodi di temperature insolitamente alte. Sotto costante stress termico, i coralli espellono le minuscole alghe che conferiscono tipici colori caratteristici e che vivono nei loro tessuti, note come zooxantelle, lasciando un’impalcatura bianca. Le alghe sono indispensabili ai coralli poiché attraverso la fotosintesi conferiscono al corallo la maggior parte del proprio fabbisogno energetico, fino al 90% in alcune specie. I polipi di cui è formato il corallo forniscono alla colonia solamente una minima parte del proprio fabbisogno, e senza le minuscole alghe i coralli non solo perdono i colori, ma vanno incontro a un deperimento. Questo fenomeno è noto come sbiancamento. Sebbene essi possano riacquistare le loro zooxantelle, a patto che le condizioni diventino più favorevoli, lo stress termico persistente è in grado di provocare il deperimento di intere barriere coralline, e quindi degli ecosistemi che supportano.

Frequenza dei fenomeni di sbiancamento

I fenomeni di sbiancamento delle barriere coralline sono diventati cinque volte più comuni in tutto il mondo negli ultimi 40 anni come evidenziato da numerose ricerche. Vista la loro fondamentale importanza ecologica per l’ecosistema marino e la capacità di sottrarre carbonio (sono dei “carbon sink”), sono oggetto di un attento monitoraggio e il deperimento del loro stato di salute è considerato un punto di non ritorno (“tipping point”) nella lotta per contrastare i cambiamenti climatici.

A confermare il ruolo dell’azione umana nell’induzione di questi fenomeni, vi è la correlazione temporale tra eventi di sbiancamento, ondate di calore e innalzamento dei gas serra nell’atmosfera. Il primo evento globale di sbiancamento di massa è stato registrato nel 1998. Questo è stato seguito dal secondo e dal terzo rispettivamente nel 2010 e nel 2014-17. Questi eventi sono stati causati da ondate di calore marine, che sono state probabilmente rese più significative dal riscaldamento causato dalle emissioni antropiche e dalle oscillazioni della teleconnessione chiamato El Niño. Quest’ultimo è un fenomeno climatico periodico che provoca un forte riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico centro-meridionale e orientale (America Latina) nei mesi di dicembre e gennaio in media ogni cinque anni, spesso correlato con eventi di sbiancamento delle barriere coralline.

Nell’immagine, tratta dal rapporto speciale dell’IPCC sull’oceano e la criosfera in un clima che cambia (SROCC), mostra come le barriere coralline di tutto il mondo sono state colpite nel 2015-16. Le zone colorate sulla mappa indicano la massima settimana di riscaldamento per gradi (ACS) annuale nel 2015 e nel 2016. ACS è una misura dello stress termico cumulativo che descrive quanto calore si è accumulato in un’area nelle ultime 12 settimane sommando qualsiasi temperatura che sia superiore ad 1 °C al di sopra della media massima estiva.

I punti evidenziano le barriere coralline che hanno subito uno sbiancamento grave (in viola), moderato (color grigio viola-malva) e debole o assente con di fatto nessun sbiancamento sostanziale (bianco).

massimo annuale riscaldamento

L’impatto della sovra-pesca e di altri fenomeni sulle barriere coralline

Ma lo stress termico non è l’unica minaccia per le barriere coralline. Questi essenziali ecosistemi sono anche a rischio di altri fattori, tra cui la sovra-pesca, pratiche di pesca distruttive e non regolamentate, sedimentazione associata all’innalzamento del livello del mare ed allo sviluppo costiero, eccessivo deflusso di sostanze nutritive dalla terra (eutrofizzazione), danni provocati da eventi estremi, acidificazione degli oceani e cambiamenti nella circolazione termoalina oceanica.

All’interno degli ecosistemi supportati dalle barriere coralline, ogni specie svolge un ruolo fondamentale nel mantenere la salute e l’integrità dell’intero sistema ecologico, ma la sovra-pesca può diminuire drasticamente la popolazione di pesci essenziali al mantenimento dell’ecosistema.

Diversi studi hanno evidenziato come i pesci erbivori svolgano un ruolo importante nel promuovere la resilienza e resistenza della barriera corallina rimuovendo le alghe e altre specie competitor. Pertanto, la loro presenza cruciale per una barriera in grado di ritornare a uno stato dominato dal corallo quando si verifica un disturbo o un forte stress termico. Inoltre, pratiche di pesca distruttive come lo strascico, distruggono meccanicamente le barriere coralline sia tropicali che dei mari profondi (“deep sea”), così come gli eventi metereologici estremi. Eccessivi nutrienti portati da corsi d’acqua fino al mare e alte temperature possono creare un connubio perfetto per la prolificazione di alghe. Le macro-alghe tropicali a crescita rapida possono rapidamente innescare fenomeni di successione ecologica nelle aree soggette a sbiancamento, impedendo potenzialmente che vengano ricolonizzate dai coralli.

Questi cambiamenti possono essere rapidi come evidenziato da diversi studi. Ad esempio, dopo lo sbiancamento del 1998, la copertura media dei coralli nella riserva marina dell’isola di Cousin alle Seychelles è scesa a meno dell’1% nel 2005, mentre la copertura delle macroalghe è aumentata di circa il 40%. L’aumento dei gas ad effetto serra nell’atmosfera sta anche causando un fenomeno di progressiva “acidificazione” dell’acqua marina, innescata da reazioni chimiche legate all’assorbimento di gas acidi da parte dell’Oceano. Questo fenomeno diminuisce la quantità di alcune molecole necessaria ad animali come coralli e molluschi per costruire la loro struttura solida, indebolendoli, rallentando la loro crescita e quindi la loro capacità di riprendersi dopo uno sbiancamento. Uno studio pubblicato nel 2020 da Cooper et al., su Nature Communications suggerisce che, una volta sbiancate, le barriere coralline caraibiche potrebbero collassare entro 15 anni. Tali “scale temporali decennali” sono «coerenti con le osservazioni secondo le quali la copertura corallina nei Caraibi è diminuita dell’80% dal 1977 al 2001 e potrebbe scomparire completamente entro il 2035, a seconda dei tassi di ulteriore pesca eccessiva, cambiamento climatico e acidificazione degli oceani», osservano gli autori.

sbiancamento coralli

Coral bleaching. Scott Reef, April 2016. Credits: https://www.aims.gov.au

Tempi di ripresa di una barriera corallina

Una barriera corallina “sana” può riprendersi in 10-15 anni dopo un evento di sbiancamento a patto che non vi siano stress ricorrenti e forte pressione da parte di altri competitor come le alghe. Vari studi hanno dimostrato che negli anni ‘80 si verificavano gravi sbiancamenti ogni 25-30 anni. Ora la frequenza è aumentata e ricorrono mediamente in meno di 6 anni e a un ritmo troppo veloce da riconsentire una ricolonizzazione in 10-15 anni. Il rapporto speciale dell’IPCC relativo agli 1,5 °C afferma: «Anche il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni coerenti con l’ambizioso obiettivo di 1,5 °C di riscaldamento globale ai sensi dell’Accordo di Parigi comporterà l’ulteriore perdita del 70-90% dei coralli che formano la barriera corallina rispetto ad oggi, con il 99% dei coralli persi a fronte di un riscaldamento di 2 °C o più.»

Autorevoli scienziati esperti in materia come C. Mark Eakin affermano che le barriere coralline hanno già raggiunto un punto critico: «La perdita su larga scala di coralli funzionalmente diversi è un presagio di ulteriori cambiamenti radicali nelle condizioni e nelle dinamiche di tutti gli ecosistemi, rafforzando la necessità di una valutazione del rischio di collasso dell’ecosistema, soprattutto se l’azione globale sul cambiamento climatico non riuscisse a limitare il riscaldamento a 1,5-2 °C.»

La diffusa perdita di barriere coralline sarebbe devastante per gli ecosistemi, le economie e le persone.

Secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), nonostante coprano meno dello 0,1% del fondo oceanico, le barriere coralline ospitano più di un quarto di tutte le specie ittiche marine. Inoltre le barriere coralline supportano direttamente oltre 500 milioni di persone in tutto il mondo, che fanno affidamento su di loro per la sussistenza quotidiana, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, perché esse hanno una funzione fondamentale negli oceani come le foreste per gli ecosistemi terrestri. Aiutando a supportare il corretto riciclo di nutrienti, lo stoccaggio di carbonio assorbito dal mare, e la biodiversità e produttività dell’Oceano, le barriere coralline contribuiscono ai servizi ecosistemici essenziali alla vita, e la loro protezione è dunque fondamentale per la salvaguardia non solo del nostro Oceano, ma anche della nostra stessa esistenza.

Prof. Marco Minella, Dipartimento di Chimica – Università di Torino; Coordinamento Cambiamenti Climatici UniTo GreenOffice UniToGo

dott. Tommaso Orusa, borsista di ricerca presso Unito Green Office Energia e Cambiamenti climatici e dottorando al GEO4AGRI presso il Dipartimento di Scienze, Agrarie Forestali e Alimentari dell’Università degli studi di Torino

 dott.ssa Mariasole Bianco, Worldrise Onlus

dott.ssa Arianna Liconti, Worldrise Onlus; Marine Biological Association

 

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Credits immagine di apertura: Pixnio.com ( https://pixnio.com/nature-landscapes/oceans/ocean-waves-water )