Rifugiati climatici

Rifugiati climatici” è il nuovo articolo frutto della collaborazione tra la Sezione Valorizzazione della Ricerca e Public Engagement – Agorà Scienza – e dal Green Office UniToGO dell’Università di Torino con la IdeeGreen S.r.l. Società Benefit.

L’articolo riprende i testi del prof. Roberto Louvin pubblicati nell’opera “Lessico e Nuvole: le parole del cambiamento climatico”, la seconda edizione della guida linguistica e scientifica per orientarsi nelle più urgenti questioni relative al riscaldamento globale, curata dalla Sezione e dal Green Office.

La versione gratuita di Lessico e Nuvole, sotto forma di file in formato .pdf, è scaricabile dalla piattaforma zenodo.org.

La versione cartacea e l’eBook sono acquistabili online sulle seguenti piattaforme di distribuzione:

– youcanprint.it

– Amazon

– Mondadori (anche con Carta del Docente e 18app)

– IBS

– Libreria Universitaria (anche con Carta del Docente e 18app)

Tutto il ricavato delle versioni a pagamento sarà utilizzato dall’Università di Torino per finanziare progetti di ricerca e di public engagement sui temi dei cambiamenti climatici e della sostenibilità.

Cosa significa rifugiato climatico

Intendiamo, in senso generale, come rifugiato climatico una persona costretta a lasciare, in via temporanea o permanente, la propria residenza abituale per effetto di una degradazione ambientale, improvvisa o progressiva, dovuta a un mutamento di origine naturale o umana del clima.

Si tratta di persone che non possono più trovare sostentamento sicuro nelle loro terre d’origine a causa di siccità, erosione del suolo, desertificazione e altri problemi ambientali, e che nella loro disperazione sentono di non avere altra alternativa che cercare rifugio altrove, per quanto pericoloso possa rivelarsi questo tentativo (Myers, 1993).

Gli effetti dei Cambiamenti climatici che causano le migrazioni forzate

Vi sono oggi tre principali effetti dei cambiamenti climatici all’origine di processi di migrazione forzata: l’innalzamento del livello del mare, l’intensificarsi delle catastrofi naturali (uragani, inondazioni, siccità, ecc.) e la diminuzione delle risorse disponibili di acqua potabile (stress idrico).

Benché il cambiamento climatico sia da sempre un fattore naturale determinante nelle migrazioni umane, in epoche più remote ciò dipendeva da ragioni non condizionabili dall’intervento del genere umano. Solo con l’ingresso nell’Antropocene, e soprattutto a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, il fattore umano ha inciso direttamente e in maniera crescente sul cambiamento del clima, provocando ingenti movimenti di profughi ambientali, sia nella dimensione della migrazione rurale-urbana che in quella transnazionale.

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Utilizzo del termine rifugiato ambientale

Il termine “rifugiato ambientale” ha iniziato a diventare di uso comune negli anni Settanta del secolo scorso, pur non corrispondendo ancora a una nozione giuridica formalmente consacrata.

Il diritto internazionale limita attualmente gli effetti della propria protezione speciale alla sola categoria del “rifugiato politico” inteso come chi «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, ovvero […] non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale […] non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra.» (Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, art. 1, lett. A), c. 2).

La figura del rifugiato ambientale non è, al momento, beneficiaria di diritti analoghi a quelli del rifugiato politico, anche se non sono mancate coraggiose e pionieristiche pronunce giudiziali tese a estendere anche ai profughi climatici i benefici dell’asilo politico.

Nel complesso, il tema del riconoscimento dello status di rifugiato per cause ambientali e climatiche è comunque finora stato affrontato in maniera episodica e contraddittoria dalle autorità nazionali e internazionali e dalle diverse giurisdizioni: in assenza di chiare e coerenti linee interpretative, la prassi seguita dai singoli stati non consente oggi alle persone costrette a fuggire per gli effetti devastanti del cambiamento climatico di esercitare gli speciali diritti che esse rivendicano.

All’interno della categoria generale dei rifugiati ambientali emerge quella più circoscritta di rifugiati climatici, con i primi casi emblematici come l’evacuazione generale avviata nel 2003 dal governo della Papua Nuova Guinea dalle isole Carteret.

La dimensione del fenomeno è in costante allargamento ed è ricorrente la predizione di un numero globale planetario di sfollati climatici che potrebbe superare le 200 milioni di unità di qui al 2050.

Malgrado gli appelli delle ONG e di tutta la comunità internazionale, la figura del rifugiato ambientale e climatico resta al momento non codificata dal diritto internazionale.

L’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), principale organizzazione intergovernativa operante nel campo della migrazione per promuovere una migrazione umana ordinata e la cooperazione internazionale sulle questioni migratorie, ha qualificato l’atteggiamento della comunità internazionale come “politica dello struzzo”.

Alcune recenti iniziative politiche e diplomatiche hanno puntato, ancora timidamente, ad accrescere la sensibilità e il senso responsabilità riguardo al crescente impatto degli sfollamenti di massa ambientali.

Le proposte in campo sono però ancora generiche, come risulta anche dall’auspicio del Parlamento europeo secondo cui «alle persone sfollate a causa degli effetti del cambiamento climatico dovrebbe essere conferito uno speciale status di protezione internazionale, che tenga conto della natura specifica della loro situazione.» (Risoluzione del Parlamento Europeo del 5 aprile 2017, 2015/2342).

Alcuni studiosi, su posizioni ancora minoritarie, teorizzano l’esistenza già oggi di un vero e proprio obbligo giuridico degli stati di proteggere i migranti climatici forzati, quando i loro paesi d’origine diventino invivibili al punto da non garantire più l’esercizio dei diritti umani inalienabili nei loro territori. Ne conseguirebbe un vero e proprio dovere, in capo agli stati, di riconoscere già adesso diritti azionabili in capo ai migranti climatici forzati, anche a prescindere dalla loro auspicabile futura formalizzazione nelle carte internazionali (Sciaccaluga, 2020). In risposta alle evidenti lacune del diritto internazionale, sono emerse delle prime proposte volte all’adozione di specifici strumenti giuridici che sanciscano ufficialmente lo status di rifugiato ambientale e climatico, facendo così finalmente evolvere la condizione dei profughi climatici da migranti generici a veri e propri rifugiati climatici, titolari di un preciso statuto giuridico in ternazionale per la loro protezione.

Tra le possibili vie d’uscita sono state ipotizzate la modifica della Convenzione di Ginevra attraverso l’introduzione di un nuovo Protocollo Aggiuntivo ad hoc e l’adozione di una specifica Convenzione internazionale approvativa di uno Statuto specificamente consacrato alla tutela dei migranti ambientali e climatici come teorizzato dal Projet de Convention relative au statut international des déplacés environnementaux elaborato da M. Prieur (Prieur, 2008).

 

prof. Roberto Louvin, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università degli Studi di Trieste

 

Bibliografia

– Latini Gianni, Bagliani Marco, & Orusa Tommaso. (2020). Lessico e nuvole: le parole del cambiamento climatico – II ed., Università di Torino. Zenodo. http://doi.org/10.5281/zenodo.4276945

– Myers N., “Environmental Refugees in a Globally Warmed World”, BioScience, Vol. 43, n. 11, 1993, pp. 752-761

– Prieur M. et al., “Projet de Convention relative au statut international des déplacés environnementaux”,    REDE,  n.  4/2008, p.  38 ss.

– Sciaccaluga G., “International Law and the Protection of “Climate Refugees”, 2020. Palgrave Macmillan.

 

Credits immagine di apertura: Robert Stansfield/Department for International Development