Invecchiare in salute: l’importanza delle neuroscienze

anziana coppia in salute

Oggi ci occupiamo di neuroscienze e della loro applicazione nella comprensione dei processi di invecchiamento e di ciò che può aiutarci ad invecchiare in salute.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha proclamato il decennio 2021-2030 “Decade of Healthy Ageing“, cioè il Decennio dell’Invecchiamento in Buona Salute.

L’obiettivo di questo programma è quello di migliorare le vite delle persone più anziane, delle loro famiglie e delle comunità in cui vivono, attraverso politiche ed interventi che riuniscono insieme governi, società civile, agenzie internazionali, il mondo accademico e di ricerca, le imprese. Lo sguardo dell’ONU e dell’OMS è rivolto soprattutto agli over 60 che vivono nei Paesi con un reddito medio basso o molto basso: per queste persone ci sono spesso barriere (economiche, sociali, culturali, fisiche) che non permettono di accedere a risorse di vita importanti in vecchiaia, rendendo per questo la loro vita faticosa e misera.

La situazione in Italia e in altri Paesi più ricchi è diversa e tutela sicuramente di più le fasce di popolazione più vecchie: nel nostro Paese è più facile e sicuro invecchiare in salute.

Cosa significa invecchiare in salute

Ma cosa intendiamo per invecchiare in salute?

Certamente ci riferiamo alla salute fisica e psichica di una persona, all’accesso alle cure sanitarie, ma anche alla sua capacità di vivere in autonomia, alla qualità e alla ricchezza del suo tempo, delle sue relazioni sociali, delle sue capacità cognitive.

La scienza sta dirigendo molto la ricerca su quali siano i fattori protettivi per una vecchiaia in salute, il che naturalmente equivale a dire indagare quali siano i fattori che proteggono contro le malattie dovute all’età. Tra queste c’è la malattia di Alzheimer.

L’intervista al professor Alessandro Vercelli

Abbiamo raggiunto il professore Alessandro Vercelli, direttore scientifico del NICO – Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino, con sede ad Orbassano, in provincia di Torino.

Il prof. Vercelli è professore ordinario di Anatomia Umana del Dipartimento di Neuroscienze, Vice Rettore alla Ricerca Biomedica dell’Università di Torino dal 2019 e dall’inizio del 2022 presidente della SINS (Società Italiana di Neuroscienze).

È stato responsabile di un progetto condotto negli anni 2016-2020 in 7 Paesi tra Europa, Asia ed Australia, con lo scopo di indagare gli effetti della fragilità causata dall’età sulle persone anziane.

Lo studio è stato realizzato grazie alla collaborazione del professor Innocenzo Rainero, neurologo del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino, che opera presso l’Ospedale Molinette, Città della Salute e della Scienza di Torino e presso la Clinica della Memoria di Collegno (TO).

Il titolo scelto per questo progetto è My Active and Healthy Ageing (my-AHA), che in italiano vuol dire “il mio invecchiamento attivo e in buona salute”. Si tratta di un trial clinico (i trial clinici sono ricerche utilizzate per verificare se una nuova terapia, un nuovo percorso diagnostico siano più efficaci di quanto è attualmente in uso), dunque uno studio, potremmo dire, molto concreto, che dà indicazioni vere e di valore per una pratica clinica basata sull’evidenza scientifica.

All’interno del progetto un gruppo di persone di età superiore a 65 anni è stato monitorato per 18 mesi ed ugualmente è stato fatto su un altro gruppo di pazienti con caratteristiche identiche, ma che riceveva un intervento fisico, cognitivo, psicologico e sociale personalizzato.

Questo avveniva sia tramite visite regolari ed il coinvolgimento dei pazienti in gite ed attività sociali, sia tramite l’utilizzo di App appositamente realizzate per il progetto e che, installate sugli smartphone dei partecipanti, li coinvolgevano in giochi per allenare le funzioni cognitive e li incoraggiavano a fare attività fisica regolare, a mangiare e dormire bene.

Quello che la ricerca ha dimostrato è che prevenendo la fragilità negli anziani si può migliorare la loro qualità della vita.

Chiaramente è vero anche il contrario, cioè migliorando la qualità della vita di una persona si riesce a ridurre anche quella fragilità che giunge con l’età, in un vero e proprio circolo virtuoso in cui una cosa alimenta l’altra.

Da qualunque parte lo si guardi, insomma, interventi di questo tipo diminuiscono le possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative senili come l’Alzheimer.

  1. Fabiana Pompei – Redazione di IdeeGreen: “Lo studio my-AHA ha portato a dei risultati evidenti su come sia importante intervenire precocemente mantenendo una buona qualità di vita tra gli anziani per prevenire o rallentare il decorso di malattie neurodegenerative che causano demenza. Non ci riferiamo solo all’Alzheimer, beninteso. I risultati dello studio sono stati pubblicati nel Gennaio 2021, un anno fa. Nell’ultimo anno avete avuto conferme o ci sono nuove evidenze scientifiche che vanno nella stessa direzione di questo studio?”

Prof. Alessandro Vercelli: “Certamente. Ciò che a una prima analisi può sembrare un semplice riscontro empirico (che tenendo allenata la mente il decadimento cognitivo rallenta, o che facendo moderato esercizio fisico si è più di buon umore e in forze) appare ormai mediato da molecole che vengono liberate nel nostro organismo in seguito a queste attività. Si stanno cioè scoprendo i mediatori biochimici endogeni di tali effetti, cosa che apre la strada anche all’ideazione di nuovi farmaci.”

  1. Fabiana Pompei – Redazione di IdeeGreen: Quali sono le abitudini di vita che ritenete valga la pena avere per prevenire malattie neurodegenerative come le demenze o per favorire un buon invecchiamento neurologico?

Prof. Alessandro Vercelli: Sicuramente, prima di tutto, una dieta sana ed equilibrata (potremmo dire la dieta mediterranea) che riduce la neuroinfiammazione e previene le malattie metaboliche e vascolari che possono essere concause del decadimento neurologico. Questo è strettamente collegato agli “stili di vita”: la vita sedentaria, il fumo e il consumo smodato di alcoolici sovraccaricano il nostro fisico e il nostro cervello di elementi negativi che giorno dopo giorno rappresentano un pericolo per la nostra salute. Quindi, oltre ad una dieta e ad uno stile di vita in salute, è fondamentale una serie di attività all’insegna della “moderazione”. Attività fisica moderata (passeggiate, possibilmente nel verde che favorisce il benessere), esercizi e giochi cognitivi (che siano stimolanti e piacevoli, cosicché non risultino noiosi), attività sociali (visite ai musei, gite, cinema o teatro). Sono cose che ci avrebbero già indicato i nostri nonni, ma che ora sono andate un po’ perse e bisogna recuperare sotto una nuova forma, per adeguarle all’uomo moderno. Conoscendo anche i meccanismi molecolari, possiamo sperare di agire anche farmacologicamente.

Ciò che è importante chiarire è comunque che l’invecchiamento comincia alla nascita, quindi il nostro invecchiamento è la sommatoria di tutte le nostre esperienze passate e non possiamo limitarci a prevenire l’invecchiamento patologico quando i sintomi sono ormai conclamati.

  1. Fabiana Pompei – Redazione di IdeeGreen: “Attualmente nella cura dell’Alzheimer si usano farmaci sintomatici e di recente è stato introdotto l’utilizzo, seppur dibattuto, di anticorpi monoclonali diretti contro la sostanza amiloide (ricordiamo che la sostanza amiloide origina dal ripiegamento anomalo delle proteine sintetizzate nel cervello ed il cui accumulo causa demenza).”

Prof. Alessandro Vercelli:In realtà si stanno sperimentando, a livello di ricerca di base e di modelli animali, diverse sostanze che possono ridurre l’aggregazione ed il misfolding (l’alterato ripiegamento) delle proteine nei neuroni. Di questo al NICO si occupa la professoressa Elena Tamagno con il suo gruppo di ricerca. Altri farmaci cercano di interagire con il colesterolo nel cervello… C’è un gran fermento, e sono fiducioso che nuovi approcci possano emergere nei prossimi anni.”

  1. Fabiana Pompei – Redazione di IdeeGreen: “Poi ci sono altri studi, come quelli che state conducendo voi, che mirano alla prevenzione dell’Alzheimer attraverso l’adesione a stili di vita sani e l’abbattimento, laddove possibile, di fattori di rischio come l’ipercolesterolemia ed il diabete. Anche in questo senso va il vostro sforzo di individuare biomarcatori precoci che fanno fare diagnosi di Alzheimer in assenza di sintomi, cioè quando ancora i sintomi non sono esorditi e si hanno maggiori possibilità terapeutiche disponibili.”

Prof. Alessandro Vercelli: “Quella dei biomarcatori precoci è una sfida estremamente interessante. Le nostre capacità tecniche di dosare molecole a concentrazioni infinitesimali nella cosiddetta biopsia liquida (il sangue, la saliva, le lacrime, il liquido cefalorachidiano che bagna il sistema nervoso centrale), associate alle tecniche di intelligenza artificiale ci permettono dosaggi sinora impensabili. In parallelo, l’analisi del fenotipo (il comportamento del paziente, ma anche le immagini radiologiche del suo cervello) ci permette di individuare segni precoci di malattia. Allo stesso tempo lo studio delle diverse omiche (genoma, miRNoma, proteoma, connettoma, e altro¹) in grandi coorti di soggetti come risultato dello sforzo nazionale e internazionale, permette di individuare ulteriori marcatori correlati alle singole patologie, nella speranza di arrivare ad una medicina personalizzata. Ciò è reso anche possibile dalla creazione di modelli cellulari di malattia (originati da cellule di singoli pazienti), che permettono la formazione di veri e propri avatar. Al NICO ci stiamo attrezzando per creare questi modelli.

  1. Fabiana Pompei – Redazione di IdeeGreen: “Quanto pensa si riuscirà in futuro a confidare invece nell’impiego terapeutico di neuroni giovani ed in generale nelle capacità riparative del cervello?”

Prof. Alessandro Vercelli:  “Questo è un tema interessante, ma, sebbene ormai studiato da decenni, ancora molto dibattuto. Sembra che la neurogenesi sia molto ridotta nel cervello adulto (da noi se ne occupano il professore Luca Bonfanti ed il suo gruppo), soprattutto nei primati e nell’uomo, e nell’invecchiamento.

Recentemente si è ipotizzato che i neuroni senescenti inibiscano la neurogenesi di altre cellule. Ciononostante, almeno a livello teorico è possibile stimolarla, anche attraverso le molecole prodotte dal corpo nell’invecchiamento attivo, per capirci quello indagato dallo studio my-AHA. Infine, il cervello è dotato di una discreta plasticità, e l’esercizio (di varia natura) può favorire il recupero funzionale.

Più complicato pensare di trapiantare neuroni giovani: lo si sta sperimentando in patologie in cui si abbia la degenerazione di una popolazione specifica di neuroni (il Parkinson, l’Huntington), anche se per ora con buoni risultati solo sperimentali. Al NICO la professoressa Annalisa Buffo e i suoi collaboratori stanno lavorando sul tema come parte del progetto europeo NSC RECONSTRUCT.

Se però la perdita di neuroni è piuttosto diffusa, anche come tipo di cellule, è difficile che eventuali trapianti riescano a far differenziare molti tipi cellulari, che poi dovrebbero ristabilire delle connessioni appropriate specifiche.”

  1. Fabiana Pompei – Redazione di IdeeGreen: “Sappiamo che la pandemia in corso ha minato il benessere psicofisico di tutti, di alcuni più che di altri, colpendo innanzitutto le relazioni sociali che sono fonte di salute per ogni essere umano, a qualunque età, e sicuramente tra i bambini e i ragazzi e forse ugualmente tra gli anziani (mi riferisco soprattutto a coloro che vivono soli). State avendo riscontro diretto nella vostra pratica clinica e di ricerca degli effetti della pandemia in questo senso?”

Prof. Alessandro Vercelli:  “Io non sono direttamente coinvolto nella attività clinica ma so per sicuro, sia per colloqui con i nostri colleghi neurologi, psichiatri e neuropsichiatri infantili, sia per la lettura di lavori scientifici pubblicati a livello internazionale, che la pandemia in vario modo sta avendo ripercussioni negative sulle persone, con probabili effetti anche nel lungo periodo. Questo sia per i danni cellulari dell’infezione da COVID e la conseguente neuroinfiammazione (di cui si sa ancora poco), sia per le conseguenze psicologiche dell’isolamento.

Passato questo periodo emergenziale, la comunità medica, ma anche i decisori sociali, dovranno porsi il problema di come porvi rimedio o comunque come affrontarla a livello di sistema.”

  1. Fabiana Pompei – Redazione di IdeeGreen: “Alla luce di quanto sapete oggi e degli sforzi verso cui le neuroscienze stanno tendendo, quali sono i possibili sviluppi futuri delle neuroscienze o gli ambiti di maggiore interesse verso cui le neuroscienze punteranno?”

Prof. Alessandro Vercelli: “Le neuroscienze sono un campo in grande fermento in cui diverse scienze e metodologie si intersecano con una grande interdisciplinarietà. È molto difficile dare ragione in poche righe di questo grande progresso conoscitivo e metodologico, se non per alcuni spunti.

Sicuramente, l’integrazione dei diversi livelli di indagine, microscopico, di connessioni e più macroscopico nell’analisi dei sistemi complessi permetterà una visione più olistica del sistema nervoso e delle sue patologie.

Un campo molto interessante in fase di sviluppo è la stimolazione magnetica o elettrica (transcranica) del sistema nervoso, così come la registrazione dei segnali elettrici prodotti dalle nostre cellule nervose nella speranza di individuare pattern di malattia e di stimolazione che possano avere un effetto terapeutico.

L’applicazione dell’intelligenza artificiale a tutti i livelli sta inoltre fornendo nuovi dati, identificando nuovi marcatori e segni di malattia e nuove indicazioni terapeutiche.

Estremamente interessanti sono tutti i dati di risonanza magnetica strutturale per analizzare con grande dettaglio la morfologia del cervello nel vivente e le connessioni tra le varie aree (e come cambiano nella patologia) e di risonanza funzionale, che permette di studiare le reti neuronali nell’esecuzione di compiti, e le eventuali loro alterazioni patologiche.

Un campo di frontiera è l’interfaccia uomo/cervello-macchina, uno strumento che permette al cervello di comunicare direttamente con la “macchina” da controllare (un computer o un arto robotico per esempio). Si tratta di una frontiera a cui collaborano neurofisiologia, scienza informatica e ingegneria.”

  

¹ Le omiche sono le discipline biologiche che si occupano di studiare il genoma – l’insieme di tutti i geni umani; il miRNoma – l’insieme di tutti gli mRNA umani; il proteoma – la totalità delle proteine espresse dall’essere umano; il connettoma – il totale dei neuroni e delle sinapsi di un cervello, etc. Sono discipline, vista la vastità dell’oggetto della loro indagine, che lavorano su un’enorme quantità di dati ed informazioni.

Pubblicato da Fabiana Pompei, laureata con lode in Medicina e Chirurgia e specializzata in Scienza dell’Alimentazione a Milano, il 26 Gennaio 2022